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Nebbia

di Miguel de Unamuno

nebbia E’ il 1914, in Spagna Miguel de Unamuno dà alle stampe Nebbia, romanzo o novella o nivola, nella parole che l’autore attribuisce al Vìctor Goti autore del prologo. Nebbia è infatti dichiaratamente uno scritto sperimentale, che infrange i canoni del romanzo mettendo in scena l’autore e facendolo dialogare con i propri personaggi, inserendo un prologo da parte di uno scrittore fittizio e una postfazione da parte di Unamuno che dialoga a sua volta con l’immaginario redattore della prefazione.

Don Augusto Perez, giovane abbiente e sfaccendato, rimane folgorato dagli occhi della bella Eugenia e scopre la bellezza femminile e l’amore. In realtà Don Augusto non si innamora di una persona reale, ma di un’idea, che – come gli dice il suo amico Victor – era già in lui: Augusto era innamorato ab inizio, e la fugace visione di Eugenia non ha fatto altro che condurlo dall’astratto al concreto, e dal concreto al generico, dalla donna a una donna, e da una donna alle donne. Per questo ora Augusto viene attratto da qualsiasi bellezza gli passi dinnanzi agli occhi. Augusto non decide, non agisce: viene agito dagli eventi, che lo conducono a chiedere la mano di Eugenia. E nonostante Eugenia non sia l’unica donna che lui desideri, si sente talmente prostrato quando lei lo abbandona fuggendo con il precedente fidanzato, che medita il suicidio. Ma neppure questo gesto estremo si impone con decisione sulla vita di Don Augusto, che decide di far visita a Miguel de Unamuno in persona per consultarsi sul suo proposito.

Nell’incontro fra autore e protagonista, Unamuno trova il pretesto per esprimere alcune sue idee relative alla vita e alla letteratura, così come già aveva fatto in precedenza in occasione di un incontro fra Augusto e l’amico scrittore Victor Goti. Il discorso meta-letterario, già avviato in precedenza, si arricchisce qui della messa in scena di sé stesso in veste di interlocutore del proprio personaggio: Don Augusto scoprendosi entità immaginaria, prodotto della fantasia dell’autore ma anche dei suoi lettori, ribatte che è proprio l’autore l’entità immaginaria, puro pretesto affinché la sua storia possa venire al mondo, così come Unamuno aveva diverse volte sostenuto che Don Chisciotte e Sancho Panza sono anche più reali di Cervantes. E non ha forse l’entità immaginaria una propria logica interna? Chi decide, l’autore o il personaggio stesso? Unamuno sembra averla vinta minacciando di morte il povero Augusto, che ritorna alla propria casa tacciando autore e lettori di essere entità immaginarie che Dio smetterà di sognare.

Si compirà così il destino che l’autore ha decretato per il personaggio, ma Don Augusto comparirà ancora in sogno a Unamuno per ricordargli che lei, come tutti i suoi compatrioti, dorme e sogna, e sogna di avere voglia, ma in realtà non ne ha affatto.

L’accenno alle vicende politiche del tempo sfuma in un discorso di carattere sociale incentrato sull’uomo e la parola nell’epilogo dedicato ad Orfeo, il cane di Don Augusto: l’uomo abbaia a modo suo, parla, e questo gli è servito a inventare quello che non c’è, e a non badare a quello che ha davanti. Dopo che ha dato un nome a qualcosa, smette per sempre di vederlo, non fa altro che ascoltare il nome che gli ha dato, o leggerlo per iscritto. La lingua gli serve per mentire, per inventarsi quello che non c’è e confondersi.

E questa commistione della realtà con l’immaginazione è la cifra che attraversa tutto il romanzo, la nebbia di pensieri che avvolge tutte le cose e che impedisce a Don Augusto di vivere, rimanendo intrappolato in interminabili monologhi che precludono ogni capacità di azione.

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