di Azadeh Moaveni
Azadeh Moaveni è una iraniana crescita in California alle porte della modernissima Silicon Valley. Alla ricerca di una identità che la faccia sentire parte della propria terra e della propria cultura, si trasferisce nel 2000 a Teheran in qualità di inviata del Time Magazine.
Lipstick Jihad è il racconto degli anni trascorsi nella capitale iraniana (2000-2001): le pulsioni modernizzatrici e la repressione integralista che si fronteggiano per le strade si stagliano sullo sfondo di un regime in cui riformismo e conservatorismo sono strettamente legati, quasi facce della medesima medaglia. Come scrive Moaveni, “il divario fra un mullah e un civile iraniano era di gran lunga più profondo che tra un mullah e un riformista”.
Dalle pagine del libro emerge chiaro il desiderio di modernità e di cambiamento che serpeggia fra i cittadini, e che si rivela in quel velo che scivola lasciando scoperto il capo, in quella sistematica infrazione delle regole unita alla consapevolezza del rischio di maltrattamenti e fustigazioni.
Moaveni ci mostra come la vittoria di un presidente riformista non significhi l’avvento della libertà e la cessazione delle repressioni ad opera delle squadre integraliste: le sue parole sono una chiave di lettura importante per capire il ritmo lentissimo del mutamento dei costumi, che avviene in maniera sotterranea e non ufficiale, e la contestuale impossibilità di un radicale cambiamento di rotta, in un regime in cui il Parlamento è comunque soggetto all’autorità dei capi religiosi.
Allo spaccato della vita a Teheran si intreccia la ricerca di una identità che sia in grado di accogliere totalmente Azadeh Moaveni, straniera nella patria d’adozione e straniera nella propria terra: una identità che viene infine trovata nel trattino che caratterizza la sua nazionalità, irano-americana. Questa posizione intermedia le consente un punto di vista privilegiato, partecipe del contesto iraniano e al contempo consapevole del mondo occidentale.
L’ultimo capitolo del libro emana l’atmosfera greve del post 11 Settembre: Azadeh Moaveni lascia un Iran in cui le maglie del regime stanno stringendosi sempre più, erodendo quei sottili margini in cui si intrufolava la libertà di parola, per ritornare in una America che guarda ai mediorientali con malcelato sospetto. Sono i giorni in cui essere iraniano significa appartenere alla terza nazione dell’alleanza del male, in cui essere musulmano equivale ad essere integralista. Ancora una volta l’identità di Moaveni si radica in quella sospensione fra due mondi, che la rende estranea a due culture e le consente di sentirsi a casa solo quando si riunisce intorno ad un tavolo insieme ad altri iraniani, come lei stranieri in un paese straniero, dimenticando il mondo esterno.
Un libro estremamente interessante e utile per guardare allo scenario sociale e politico iraniano con occhi scevri da luoghi comuni.
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