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Cent’anni di solitudine

di Gabriel García Marquez

Cent'anni di solitudineCi sono libri di cui dici “L’ho amato dalla prima riga all’ultima”. Riguardo a Cent’anni di solitudine sarebbe inesatto se mi esprimessi così. Non è stato amore a prima vista: è stato un amore sereno e appagante, consapevole come gli amori in maturità.

Iniziai a leggerlo ai tempi dell’università. Lo abbandonai a metà del primo capitolo, vinta e a quel tempo annoiata dalle stravaganze di José Arcadio Buendía.

Credo che ci sia un tempo per ogni cosa: evidentemente per me il tempo di Gabriel García Marquez è venuto molto dopo. Quest’anno ho letto Dell’amore e altri demoni, Cronaca di una morte annunciata e finalmente, in un crescendo di aspettative, Cent’anni di solitudine. E questa volta sì, l’ho amato dalla prima parola, da quell’inizio che è già proiettato in un momento successivo e avvolto in un alone di misteriosa anticipazione.

Con divertita familiarità ho visto la magia irrompere prepotentemente – eppure con passo naturale – all’interno del quotidiano, con i morti che si aggirano fra i vivi e i presagi che vengono vissuti con la tranquillità di utili indicazioni. Ed ho seguito tutti i personaggi, dal bizzarro José Arcadio che, novello Mosé di un Nuovo Mondo dove tutto pare funzionare secondo leggi sovvertite, parte alla testa di un drappello di uomini alla ricerca di una Terra non promessa, fino all’ultimo discendente che mette fine ad una stirpe segnata dalla solitudine.

La solitudine è esplicitata come carattere dominante della famiglia Buendía, e metonimicamente dell’umanità tutta, in un romanzo in cui avvenimenti e personaggi sono fortemente simbolici fino a costituire un campionario dell’umanità, delle sue caratteristiche, della sua forza e dei suoi difetti.

L’amore è, come sempre per García Marquez, venato di follia e di ossessione, indissolubilmente legato alla sofferenza e persino alla morte. Una forte carica erotica è presente in tutto il libro, e si coniuga spesso all’elemento di dismisura favolosa o fiabesca che costituisce un altro tratto costante del romanzo: la dismisura della fisicità di Josè Arcadio, la pluralità di traversie alle quali invincibilmente scampa Aureliano, il rivolo di sangue che sgorga da José Arcadio e che attraversa minuziosamente stanze e strade per arrivare fino ad Ursula, il peso di José Arcadio Buendía in punto di morte, il numero dei figli di Aureliano, le esorbitanti bisbocce di José Arcadio Secondo, e così via fino alla passione senza limiti che concluderà la stirpe.

La ripetizione ossessiva dei nomi all’interno delle generazioni è un altro elemento fiabesco che enfatizza il senso di circolarità del tempo e il carattere di predestinazione associato alla parola. Nomen omen, sembra saperlo Ursula quando considera che tutti gli Aureliani della famiglia hanno un temperamento più riflessivo e deciso, mentre i José Arcadio sono più impulsivi.

Ursula incarna il collante di una famiglia che tende a disperdersi parallelamente al suo sfibrarsi di vecchiaia. L’occhio dello scrittore abbraccia un intero secolo di solitudine in una narrazione neutrale, senza traccia di riprovazione o giudizio alcuno, senza chiedere al lettore empatia o identificazione, ma piuttosto il riconoscimento di tratti caratteristici dell’umanità, che si trovano distillati all’interno di quel microcosmo simbolico che è Macondo.

La prosa di Marquez fiorisce rigogliosa e naturale come la vegetazione tropicale, storie ed incisi germinano l’uno sull’altro con una prolificità spontanea che affascina e tiene incollati pagina per pagina.

Un capolavoro, che mi porta ad affermare di aver trovato finalmente il mio libro preferito.

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4 Responses to “Cent’anni di solitudine”

  1. monia says:

    il libro viene definito come il magnum opus dell’autore.. – pensa, sono pure andata cercare macondo.. bel racconto ale.. buona notte :o)

  2. Grazie, hai rievocato in me ricordi su un testo che ho amato molto anni fa… anche io l’ho amato piano, piano, all’inizio non seguivo bene la trama… forse c’è l’idea della ciclicità del tempo…
    Macondo mi pare sia una città della Colombia, che Marquez ha ribattezzato in quel modo. Grazie Ale

  3. Nicola Frattaruolo says:

    Leggendo mi venivano i brividi. E non per quei tre gradi che ci son fuori, ma per tutto il carico di ricordi che quel libro mi fa portare addosso. E’, proprio come hai detto tu, un libro da amare piano, consapevolmente, magari anche con iniziale diffidenza.
    Complimenti per questa tua “recensione”. Davvero, grazie.

  4. alessandra says:

    oh! Grazie anche a voi, è bello condividere emozioni e “brividi” legati ad un medesimo libro 🙂

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